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Tra qualche mese apparirà uno studio sui costi ambientali delle attività industriali, commissionato dalle Nazioni Unite ed in particolare da un gruppo dei maggiori investitori internazionali riunitisi sotto la sigla United Nations Principles for Responsible Investment. La sintesi dello studio è stata già diffusa e rafforza le conclusioni del Rapporto Stern di qualche anno fa: i costi dei danni ambientali provocati dalle maggiori aziende del mondo cancellerebbero almeno un terzo dei profitti aziendali se le compagnie dovessero davvero pagare tali costi.
Alcune delle grandi compagnie USA hanno iniziato già da qualche anno ad occuparsi degli effetti nocivi delle loro emissioni clima-alteranti ed ora si preoccupano molto della stangata economica che prima o poi arriverà, non appena l' Amministrazione USA varerà la nuova legislazione sul clima. Ad esempio, American Electric Power, Chevron e General Motors, dopo essersi impegnate affinchè l' Amministrazione Clinton non firmasse il Protocollo di Kyoto, hanno comprato estensioni di foresta atlantica Brasiliana istituendo zone di protezione ambientale in collaborazione con Nature Conservancy. Così facendo hanno messo le mani avanti impossessandosi di grandi riserve di carbonio da contrattare eventualmente sul mercato delle emissioni.
E' invece molto più difficile che siano le compagnie minerarie a compensare le emissioni di gas serra anche perchè esse hanno profitti generalmente minori di quelli delle compagnie petrolifere e comunque non sono propense a pagare i danni ambientali delle attività estrattive (vd. Collapse, Jared Diamond, Penguin).
Tanto per dirne una, Rio Tinto, Cameco, Areva e KazAtomProm detengono circa il 70% della produzione mondiale di Uranio ma se dovessero essere costrette a ripulire i siti minerari e le zone adiacenti probabilmente non sarebbe per loro più conveniente estrarre il minerale e lavorarlo. E i reattori nucleari di tutto il mondo rimarrebbero senza combustibile. Su queste cose sarebbe bene riflettere.
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